lunedì 9 settembre 2013

La mia pizza a Watamu

Com’era possibile che solo dopo dieci giorni di vacanza in Kenya, pur avendo a disposizione pesce freschissimo,  meravigliosi frutti e ogni altro ben di Dio (come i chapati e le samosas  di Selina), quel pomeriggio a tutti prese un’irrefrenabile voglia di pizza? Ok per gli ingredienti, quelli si trovavano, ma come cuocerla senza avere un forno? Mi sentivo come in Cast Away, come un novello Robinson Crusoe sull’isola deserta, bisognava trovare una soluzione, quella voglia aumentava sempre di più.  Nel bungalow in costruzione c’era una pietra usata per la pavimentazione che pensavamo fosse refrattaria, poteva essere poggiata sui carboni ardenti e coperta da un coperchio di alluminio. Si, la cosa poteva funzionare, forse. Con Justin decidemmo di usarla. La farina c’era, come lievito avremmo usato dell’ottima birra Tusker, pomodoro presente e formaggio filante anche. Oramai era una sfida con noi stessi,
Mc Gyver alla millesima potenza. Primo ostacolo: lievitazione della massa. La quantità di birra usata non la ricordo, so solamente che dopo due ore l’impasto era più che raddoppiato ed io, Ambra, Elisa e il piccolo Chris eravamo davvero impazienti del risultato!  I carboni erano bollenti, la pietra era stata poggiata sopra la griglia, le pizze stese, eravamo alla prova del nove. Secondo ostacolo: avrebbe retto la pietra simil refrattaria? La pizza era stata appoggiata, il calore era davvero tantissimo in quella notte africana dove le stelle erano così vicine che sembrava potessimo toccarle. C’era eccitazione, eravamo tutti sbalorditi da quel piccolo esperimento che stava funzionando. La prima pizza era andata e non vi nascondo che era una delle più buone mangiate in vita mia. Anche la seconda, ottima. Ad un certo punto la pietra iniziò a creparsi e con uno scoppio si spaccò in due. Ma noi temerari continuammo a tenerla in vita e ci regalò altre due ottime pizze. Una serata davvero fantastica, pizze, birre e nuovi amici sotto il cielo e il silenzio africano.

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