La osservavo di nascosto. Era di spalle, il suo lungo vestito le scorreva sui fianchi a risaltare la sua pelle color mogano, era minuta ma molto forte, schiva, timida, ma sempre sorridente, sempre disponibile ad accontentarci ad ogni richiesta gastronomica. Cercavo di carpire ogni segreto, magari un ingrediente particolare, speciale, che rendesse i suoi chapati così gustosi, così semplicemente meravigliosi. Avevano un profumo intenso che si avvicinava al pane appena sfornato, caldi, morbidi, il primo morso era sempre quello più sorprendente. A ogni boccone scoprivo un nuovo sapore, un nuovo odore che si sprigionava in bocca e saliva nel naso. Morbidi, fragranti, dolci al punto giusto, una goduria per il palato e per lo spirito. La vedevo mescolare in un recipiente d’ebano la farina con l’acqua, con aggiunta una goccia d’olio di mais e il sale. Vedevo darle forma su di una piccola spianatoia di legno, con movimenti decisi e delicati allo stesso tempo. Una spennellata d’olio di mais e in padella a cuocere. Il sapore delle cose semplici. Ero diventato un chapati dipendente. Per me una droga. Ogni volta la osservavo, ogni volta registravo nella mia mente i singoli passaggi, ripromettendomi di provarci una volta tornato in Italia. Niente da fare. Pur riavvolgendo mille volte il nastro, pur provandoci a più riprese, i miei chapati non erano quelli di Selina. Gli stessi ingredienti, le stesse quantità, gli stessi movimenti. Ma un’aria diversa, un’acqua diversa, ma soprattutto un’atmosfera differente che rendevano quei chapati, per me, i migliori al mondo. Anche questo è l’Africa.
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