Il locale era uno dei centinaia sparsi
in città. Tutti con nomi italiani di proprietari di seconda e terza
generazione. Si dice che lì alcuni di noi abbiano fatto tanti soldi
con la ristorazione, perchè ci sappiamo fare, perchè siamo più
simpatici, perchè nella cucina mettiamo amore e trattiamo con amore
i clienti. E non perchè siamo furbi, non perchè vogliamo fregare il
prossimo. E questo ai tedeschi piace, tanto.
La stradina era deserta, una
pioggerellina gelida e fastidiosa mi accompagnava in quel quartiere
sinistramente silenzioso. Avevo voglia di visitare la città, di
mangiare cibo del posto, avevo pensato a tutto tranne che partecipare
ad un ritrovo di italiani emigrati in Germania e di varcare la soglia
di un ristorante dall'insegna luminosa tricolore dove si cucinavano
gli spaghetti alla bolognesi e la pizza con i pepperoni. Mi sono
dovuto ricredere. Mi hanno attraversato molteplici stati d'animo, che
dapprima ho accolto con malvolenza, ma nei quali poi ho sguazzato
fino alla tristezza più assoluta. Ho ripercorso cento anni di storia
italiana in una serata. Ho ascoltato canzoni che pensavo non fossero
mai state scritte, ho discusso amabilmente di politiche marxiste che
non ho mai visto appassionare cosi' tanto le persone, ho visto la
bella Italia, quella della brava gente, quella delle opportunità, ma
anche della disperazione e dei sacrifici, perchè lasciare il proprio
luogo in cui si è nati non fa mai piacere, mai.
La porta di quel ristorante era una
vera e propria macchina del tempo. Un “Non ci resta che piangere”
del duemilaquattordici, quasi duemilaquindici.
L'aria che si respirava era quella
delle antiche taverne di paese maldestramente rimodernate. Alle
pareti listarelle di plastica marroni cozzavano con luci Ikea che
mostravano uno slancio verso un futuro più luminoso, un vero e
proprio riscatto sociale. I tavoli, le fotografie, i quadri, perfino
il contenuto del menù erano un'istantanea dell'Italia anni sessanta,
quella che hanno lasciato migliaia di italiani per cercare fortuna
altrove. Anche i volti sembravano essere stati teletrasportati in
quegli anni. Anche il profumo del cibo, misto a quello
dell'arredamento e delle persone erano una meravigliosa foto
ingiallita di un album che viene aperto una volta all'anno. Un
perfetto “Pane e cioccolata”, film del grandissimo Nino Manfredi.
Dopo attimi d'imbarazzo, era davvero
come sentirsi a casa. Il maggior pregio di noi italiani è proprio
quello di far sentire a proprio agio gli sconosciuti e varcata quella
porta io oramai ero uno di loro. Osservavo ogni singolo viso che
cambiava in base alla musica che veniva suonata, ogni tanto il cuoco
faceva capolino dalla cucina e si appoggiava sullo stipite della
porta con un'aria mista di stanchezza e malinconia. Il dialetto
friulano si mescolava a quello siciliano e al tedesco che oramai per
tutti era di casa, come sui tavoli il nostro vino si alternava alla
birra locale. Le quarte generazioni, i piu' piccoli, assolutamente e
ovviamente fuori da quel contesto erano più dediti a giocare con gli
smartphone che non ad ascoltare la musica dei loro genitori, dei loro
nonni. Questione di generazione, appunto.
Ero partito con dei preconcetti,
pregiudizi e mi sono trovato a vivere una serata emozionante che mi
ha insegnato più di tanti libri e film messi insieme. E uscendo da
quella porta, con una fisarmonica in mano, mi sono sentito molto più
ricco di quando sono entrato.
A Melanie, Brigitte e Dario. Grazie
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