Respirare
la savana alle sette del mattino, riempirsi i polmoni di magia e
stupore, ingurgitare famelico quegli attimi commoventi, sono
esperienze che non possono più farti tornare indietro. Quando torni
dall'Africa, torni cambiato. Il mal d'Africa esiste e io lo sentivo
già prima di abbandonarla. L'arrivo a Tsavo Est aveva azzerato tutta
la stanchezza e i dolori dovuti ad una sveglia all'alba e circa
quattro ore di strade sterrate. La bocca spalancata dalla meraviglia
l'avevo socchiusa solo dopo due giorni, al termine del safari. In
piedi, avvinghiato alle sbarre del camioncino scoperto, non volevo
perdermi neanche un secondo di quello spettacolo della natura. Il
sole cocente, la polvere e la terra rossa in bocca, negli occhi, nei
capelli, mi facevano sentire vivo, grato di essere venuto al mondo,
grato di aver avuto la fortuna di essere lì, in quel momento. Il
silenzio aveva preso il posto del caos dell'arrivo, quando turisti
curiosi si facevano ammaestrare da scimmie altrettanto curiose e
alligatori stanchi guardavano con una certa diffidenza chi gli
passava accanto. Branchi di possenti bufali si alternavano a gazzelle
scattanti, sempre all'erta, pronte a scappare in vista di un
predatore. Non riuscivo a tenere lo sguardo fermo. Avrei voluto avere
mille mani per fotografare ogni istante e mille occhi per non
perdermi nulla. Gruppi di giraffe che con la loro cadenza stanca
passeggiavano e strappavano foglie dove altri animali non potevano
arrivare, erano così vicine che pareva toccarle. Le loro lunghe
ciglia gli davano un aspetto gentile, ti fissavano a tratti
incuriosite, altre volte con grande sufficienza. I cambi repentini
dell'autista, chiamato da altri colleghi che avevano scorto in
un'altra zona altri animali, mi facevano sobbalzare e ritornare per
un attimo alla realtà, che però abbandonavo ripiombando in quello
stato estasiatico quando nel fiume scorgevo ippopotami farsi il bagno
e gruppi di zebre passarmi accanto. Ero ritornato bambino e con lui lo stupore di un tempo. La visita al bush
(l'accampamento) dei Masai era stato per certi versi interessante,
per altri aveva avuto un sapore troppo commerciale, preferivo ritornare
nella savana, un'altra dimensione. Aver scelto un accampamento in
tenda e non un confortevole lodge era stata una decisione saggia. Alloggiare in piena savana, sotto un cielo di stelle meraviglioso così vicino che pareva mi abbracciasse,
moltiplicava in maniera esponenziale tutti i sensi. Dormire era tempo
perso. Se durante il giorno avevo riempito i miei occhi e il mio naso
di ricordi, ora volevo drizzare le mie antenne e far godere il mio
udito. Ascoltare lui, il re incontrastato della savana emettere un
ruggito potente in piena notte mi faceva sussultare il cuore,
un misto di paura ed eccitazione al tempo stesso. E poi l'alba.
Mettere il piede fuori dalla tenda, respirare a pieni polmoni l'aria
fresca dell'Africa guardando a pochi passi elefanti che si
abbeveravano ad una pozza era il giusto inizio di una giornata che
volevo non finisse mai. Un'altra giornata a macinare chilometri, a
incrociare gazelle, fagoceri, gnu che cercavano di sopravvivere alla
dura legge della vita. Fino a quando, a poche decine di metri si
parava davanti ai miei occhi quello che avevo visto sempre e solo in
tv. Tre magnifiche leonesse che giocavano con splendidi cuccioli di
leone. Le loro fauci, abituate ad azzannare, uccidere, soffocare,
erano lo strumento più innocuo e dolce di questo mondo quando
prendevano i loro piccoli che si erano allontanati pericolosamente.
Dopo quest'incontro, mi accasciavo sul sedile commosso, stanco,
meravigliato, malinconico e felice, stramaledettamente felice di aver
avuto la fortuna di aver trascorso due dei giorni più felici della
mia vita. E il mal d'Africa esiste, sul serio.
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